L'umiltà è amore


L'umiltà è libera.





Il tema dell’umiltà, Gesù, è centrale nella tua parola e nella tua vita.
Tu presenti l’umiltà come la sigla che D** mette sulla nostra vita quando sappiamo ascoltare la sua presenza tra di noi. Se sappiamo accoglierlo.
Questa parabola è famosissima e presenta il comportamento fondamentale che dobbiamo essere davanti a D**, e quindi davanti alle altre persone umane.
Ma che cosa significa, in questa parabola, “umiltà”. Che cosa dobbiamo prendere da te, Gesù Sposo, per assomigliarti anche in questa passione fondamentale di farci terra davanti al cielo immenso di D**?
Ascoltiamoti.





Lc 18,9-14

Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».







La prima cosa che mi sembra di notare è che c’è un riferimento molto forte a degli interlocutori che sono il destinatario esplicito della tua Parola: «alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri».
Che cosa voleva dire, nell’Israele del tuo tempo, Gesù, “essere giusti”?
Innanzitutto tu parli non di chi “è giusto” in generale, ma di chi è persuaso intimamente – nel suo intimo più profondo – di “essere giusto”. Diverso,
Allora, per capire il significato di questa “persuasione intima” dobbiamo chiederci che cosa è “giusto” in Israele al tuo tempo.

Giusto, al tuo tempo, è chi rispetta tutti i comandamenti e le regole che D** ha imposto a Israele come contenuto del patto che li unisce e che ha la sua origine in Abramo.

Questo patto è legato, quindi, alla conoscenza della Scrittura e all’ascolto costante della Parola che D** ha lasciato a Israele. Torah significa anche Insegnamento. Parola di D** che ci insegna a vivere la nostra vita davanti a Lui.
Sono quindi i precetti della Torah a fare di un ebreo un ebreo. Conoscendo e rispettando questi precetti si è giusti.
Per cui, il giusto, deve sapere di esserlo.
Infatti deve, con fatica e abnegazione, compiere tutte le norme e regole della legge. La regola fondamentale della vita del giusto è che deve saperlo.

Tu, invece, rovesci tutto.






In Matteo 25, 31-46 questo rovesciamento lo presenti nella sua formulazione più radicale nel cuore della parabola del giudizio finale del Re: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me».
Quindi non sono regole e non sono comportamenti rituali. Non c’è alcun codice etico e norma morale. È solo un modo di vivere e si essere.
Infatti i tuoi giusti, Gesù, in realtà non sanno di esserlo.

Così essere giusti è un modo di vivere, non un comportamento etico. Tu ci chiedi di vivere come te e non di essere buoni secondo regole certe e norme sicure.

Chiarito questo adesso possiamo, forse, capire qualcosa di più della umiltà di cui ci parli.

Anzitutto la parola.

In greco il verbo è “tapeinon”, da cui deriva la nostra parola “tapino” ed è un verbo che significa abbassarsi; in questo modo tanto il verbo che usa Luca, quanto la parola umilitas, con cui è tradotto, hanno innanzitutto il significato di stare a contatto con la terra, di stare in basso, dove non si nota niente, dove tutto resta nascosto, ma dove è la vita e dove risiede la bellezza.

Tu, Gesù, ci inviti a guardare in basso e a notare la bellezza, in un’altra parabola famosa, dei gigli nei campi senza preoccuparci di quello che vestiremo e mangeremo. Dobbiamo lasciare che se ne occupi D** che conosce le cose di cui abbiamo bisogno.

Umiltà, quindi, non è una virtù ma il modo di organizzare e decidere la nostra vita se essa è regolata sul tuo amore e sulla tua volontà di amarci, e di farci amare tra di noi come tu ci ami.

Chi è convinto, in se stesso e nel suo intimo, di essere giusto non può avere questa attenzione alle piccole cose, alle cose apparentemente più povere perché più legate alla terra, all’humus che ci nutre e di cui abbiamo tutte bisogno.
Chi è umile ti ascolta con più facilità perché non ha parole da opporti, ma ha solo la sua sete e fame che disseta e sfama solo con quello che tu gli dai.

Tu sai che una persona convinta di “essere giusta” non è in grado di cogliere la bellezza di D**, perché non è capace di farsi terra e di guardare l’immensità dal punto di vista della fertilità umile, del fondo su cui tutto si regge, che non ha ambizioni se non quella di servire e di essere utile.

A questo punto possiamo tornare ai tuoi due personaggi.







Abbiamo due figura classiche delle tue narrazioni, talmente classiche che devono aver fatto infuriare parecchio molte persone.

La prima sono “i farisei”.

Qui non ce l’hai con quella particolare interpretazione dell’ebraismo che ti era contemporanea.
Ti riferisci, invece, sempre a delle persone concrete.
Anche qui.
Siamo in presenza di un fariseo, uno dei tanti, un fariseo reale.
Questa cosa significava immediatamente due caratteristiche: una persona di elevato livello culturale, indispensabile per leggere e capire la Torah e applicarla, e di reddito e ricchezze altrettanto elevate.
Queste due caratteristiche fanno del fariseo una “brava persona”, uno che si comporta correttamente, secondo la legge, perché cerca di applicarla, cioè di fare dell’insegnamento di D** tutta la sua vita.
Lo sa, ed è contento di saperlo, e così rispettando la legge alla perfezione è convinto di avere assolto a ogni regola e comando D** gli ha imposto.
Ha assolto il suo dovere ed è salvo. D** non può che obbedire al patto che lui stesso ha firmato con Israele.
Per questo va al tempio.
È sinceramente riconoscente e va a ringraziare D** di tutte le cose belle e buone che gli ha dato.

Va via dal tempio contento di sé, e forse con nel cuore quella piccola inquietudine che ci prende quando ci sembra che abbiamo fatto tutto bene e nulla sfugga più al nostro controllo.

L’altro è un pubblicano.,
Ebreo anche lui, ricco anche lui, sicuramente abbastanza colto anche lui. Deve esserlo per riscuotere le tasse per i romani.
Perché il pubblicano riscuote le tasse e le riscuote sul serio, come Equitalia.
Solo che, in più, lui le riscuote in nome di un nemico straniero che domina Israele e la opprime, appunto attraverso le tasse.
Allora il pubblicano sa di essere il peggiore in Israele, insieme ai pastori i quali sono sempre con le pecore o con il bestiame e non possono occuparsi di essere giusti nel senso dei farisei o della Torah.
Il pubblicano va al tempio e chiede perdono.
Sa che non cambierà vita e continuerà a essere pubblicano.
Ma sa anche che ha bisogno dell’aiuto di D** perché la sua fame e sete d’amore nessuno la può colmare, se non D** stesso.
Così si rivolge alla terra, a quella terra a cui sente di appartenere e chiede perdono ai Cieli, all’Altissimo Eterno.
E torna a casa non più stanco di quello che fa, e forse capace di una attenzione diversa a chi gli sta attorno e ha bisogno anche di lui.







Quello che tu ci chiedi, Gesù, è un diverso atteggiamento verso D**, certo, ma che significa immediatamente un atteggiamento differente verso le persone umane che ci circondano.

Perché sapendo di aver bisogno di D** come un filo d’erba, o un fiore del campo, o un uccello del cielo, sappiamo di non essere migliori di chiunque e solo così sappiamo accogliere chi ci sta intorno e vicino, e farci loro prossimi.
Per diventare così, senza presunzione alcuna ma consapevoli della nostra vita davanti e sotto all’Eterno, per essere coloro che fanno le cose che ti servono, Gesù mio, a tutti, iniziando da noi.

Perché “questi piccoli” cui rivolgi la tua attenzione, e a cui ci chiedi di offrire la nostra capacità d’amore, siamo anche noi.


Ciao r





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