Magnanimità e speranza: Gesù



Gesù mio, ti dedico questo brano del tuo ultimo Servo: Papa Benedetto XVI. Qui dentro c'è la libertà che tu ci doni e la bellezza che ci proponi, come vie verso la costruzione dell'amore nel mondo, contro tutte le sue tristezze. Portando te, l'Amore Bello, come fonte ed origine della grandezza d'animo che ci regali e che il mondo chiama Perdono.
Ciao






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Il brano che segue e che propongo ai miei amici lettori in ringraziamento a Gesù per Papa Benedetto XVI, è un brano di eccezionale lucidità del cardinal Ratzinger. Leggerete alla fine la bibliografia e le indicazioni più precise.
Ma vorrei sottolineare come, al di là dell'occasione di un corso di esercizi spirituali, questo testo ci mette davanti a due questioni forti e belle del nostro "essere umani cristiani".
La prima è la rivendicazione della “magnanimità cristiana” come la “virtù” - meglio la “forma d'essere” fondamentale per chi è cristiano. 
La seconda è che questa magnanimità è una forma di vita lieta, contenta, che non si piega alle lamentele del mondo ed alle sue irresolvibili tristezze. Anzi, le cura con l'umiltà dello spirito di servizio che sta alla base della magnanimità.
Infatti fondamento della magnanimità cristiana è proprio la speranza che Gesù Cristo ci regala come fondazione della nostra vita in Dio.
Fondazione che non solo non rifiuta il mondo, ma lo riassume dentro di sé, ma riportato al massimo grado di bellezza e di gioia del suo essere. E questo qualsiasi cosa ci capiti e succeda nelle vicende del mondo. 
Speranza che quindi non nega il mondo così com'è, anzi lo conosce pienamente e perciò lo libera, perché lo ama e vede nel mondo il Volto Santo di Dio, il "Tutt'altro" che ci aspetta davanti, dietro, dentro e insieme all'amore di Cristo per noi.
Quindi magnanimità e speranza si tengono insieme come accompagnamento alla vita. Vita che è Gesù Cristo, colui che ci porta al Padre solo con l'Amore.


«Il secondo aspetto concerne il futuro nascosto nel presente. Il Discorso della montagna è una parola di speranza. Nella comunione con Gesù l'impossibile diventa possibile: il cammello passa per la cruna dell'ago (Mc 10,25). Nell'essere una sola cosa con lui diventiamo capaci anche della comunione con Dio e così della salvezza definitiva. Nella misura della nostra appartenenza a Gesù si realizzano anche in noi le qualità di Gesù: le Beatitudini, la perfezione del Padre. La lettera agli ebrei chiarisce questo nesso di cristologia e speranza, quando dice che noi possediamo un'àncora sicura e ferma che arriva fino all'interno del santuario, dietro la tenda, là dove Gesù è entrato (6,19s). L'uomo nuovo non è utopico: egli esiste, e nella misura in cui siamo uniti a lui, la speranza è presente e niente affatto puro futuro. La vita eterna e la vera comunione, la liberazione non sono utopia, pura attesa dell'inconsistente. La “vita eterna” è la vita reale, anche oggi è presente nella comunione con Gesù. Agostino ha sottolineato questa presenza della speranza cristiana nella sua esposizione del versetto della Lettera ai Romani: “Per la speranza noi siamo salvati” (8, 24). Egli dice in proposito: Paolo non insegna che ci sarà speranza per noi, no, egli dice: Noi siamo salvati. Certamente non vediamo ancora ciò che speriamo, ma siamo già ora corpo del Capo in cui è già tutto presenza ciò che speriamo. (…) Il soprannaturale, la grande promessa non mette da parte la natura, al contrario. Chiama l'impegno di tutte le nostre forze per la completa apertura del nostro essere, per lo sviluppo di tutte le sue possibilità.
(...)
L'uomo non ha fiducia nella sua propria grandezza, vuole essere più “realistico”. La pigrizia metafisica è quindi identica a quella pseudo-umiltà, oggi così diffusa. L'uomo non vuol credere che Dio si occupa di lui, lo conosce, lo ama, lo guarda, gli sta vicino.
Esiste uno strano odio dell'uomo contro la sua propria grandezza: L'uomo vede se stesso come il nemico della vita, dell'equilibrio della creazione, si vede come il grande turbatore della pace della natura, colui che sarebbe meglio che non ci fosse, la creatura malriuscita. La liberazione sua e del mondo consisterebbe nel distruggere se stesso e il mondo, nel fatto di eliminare lo spirito, di far scomparire lo specifico dell'essere umano in modo che la natura ritorni alla sua inconsapevole perfezione (…)
All'inizio della strada stava l'orgoglio di essere “come Dio”. Bisognava sbarazzarsi del sorvegliante Dio per essere liberi (...)Ma così si venne veramente ad una specie di spirito e volontà, che stavano contro la vita, e sono sotto il dominio della morte (…) l'uomo che voleva essere l'unico creatore di se stesso e salire in groppa alla creazione con una evoluzione migliore da lui escogitata finisce nell'auto negazione e nell'autodistruzione. Egli trova che è meglio se non esiste. Questa accidia metafisica può coesistere con molta attività e affarismo. La sua essenza è la fuga da Dio (…)
Si preferisce ritornare in Egitto, nella normalità, ed essere come tutti gli altri. Questa ribellione della pigrizia umana contro la grandezza dell'elezione è un'immagine della sollevazione contro Dio, che ritorna di continuo nella storia e qualifica in modo particolare la nostra epoca. (…) Egli non vuole essere ciò che è come creatura concreta. In questo contesto mi sembra molto attuale una considerazione fatta da Josef Pieper nel 1935, con chiara allusione allo spirito del nazionalsocialismo (… - J. Pieper è considerato come uno dei massimi esponenti del neotomismo del XX secolo - il nazismo aveva come nucleo forte della sua propaganda il “lavoro tedesco” sottolineato in senso razzista, e da valorizzare al massimo nella propaganda del regime – nota mia) Pieper diceva allora che la “pigra tristezza” è “uno dei tratti determinanti nel volto segreto del nostro tempo, dello stesso tempo che ha proclamato l'immagine ideale del mondo del lavoro. Questa tristezza determina come segno visibile della secolarizzazione il volto di ogni tempo, in cui la chiamata ai compiti veramente cristiani comincia a perdere la pubblica obbligatorietà … non con il 'lavoro' si cancella la disperazione – tutt'al più la coscienza di essa - , ma unicamente con la limpida magnanimità, che si attribuisce e si affida la grandezza della propria esistenza, e mediante lo slancio benedetto della speranza nella vita eterna”.
Importante in questo testo non è solo l'accenno al nesso tra attività esterna ed estrema negazione della profonda pigrizia dell'essere. Parimenti importante mi sembra il fatto che la magnanimità della vocazione umana si sporge oltre l'individuale dell'esistenza umana e non può venire compressa nel puro privato. Una società che fa di ciò che è autenticamente umano un affare unicamente privato e definisce se stessa in una totale profanità (…) una simile società diventa melanconica per essenza, un luogo della disperazione, essa si fonda infatti su una riduzione della dignità dell'uomo. Una società, il cui ordine pubblico viene conseguentemente determinato dall'agnosticismo, non è una società fattasi libera, ma una società disperata, segnata dalla tristezza dell'uomo, che si trova in fuga da Dio e in contraddizione con se stessa. Una Chiesa che non avesse il coraggio di evidenziare il valore anche pubblico della sua visione dell'uomo non sarebbe più sale della terra, luce del mondo, città sul monte. Anche la Chiesa può cadere nella tristezza metafisica – nell'acedia –; un eccesso di attività esteriore può essere il lamentevole tentativo di colmare la miseria e la pigrizia del cuore, che conseguono alla mancanza di fede, di speranza e di amore a Dio ed alla sua immagine riflessa, l'uomo. Poiché non si osa più ciò che è autentico e grande, bisogna darsi da fare con le cose penultime. Ma il sentimento del troppo poco resta e cresce di continuo».
Joseph Ratzinger, “Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità”, Jaca Book, Milano 1989, pagg. 52-53.60-62; esercizi tenuti dal cardinal Ratzinger ai sacerdoti di Cl a Collevalenza nel 1986 su invito di don Giussani.

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