Per san Giuseppe

Cagliari, 18 marzo 2012, ore 22,25

Gesù, mio Re, un piccolo omaggio a tuo padre umano, quell'uomo che ti ha accolto contro ogni logica e ti ha amato come capita agli umani, anche senza capirti. E ti ha donato la sua vita e tu l'hai presa tutta, perché era un dono che non potevi rifiutare.
Un piccolo omaggio a san Giuseppe, per farmi perdonare le mie assenze di questi anni.

ciao
r





Capitolo 1°. - Il Nome
“Joseph ben Jakob, padre di questa casa. Ciao. 
Ecco, è giunto il tuo addio, il momento che te ne vai e ci lasci. Qualcosa di noi vorrebbe che ti trattenessi, ma sappiamo che il lavoro che ti chiama è di quelli che non possono essere rimandati, e sappiamo che Colui che ti ha chiamato per farlo è l’unico Signore che hai temuto ed amato. 
Per cui adesso te ne vai e ci lasci.
Joseph ben Jakob, padre della casa, tante cose ti avrei voluto dire, tanti di quei miei silenzi avrei voluto colmare, a quante di quelle tue taciturne domande, e tu non sai quanto docili e serene, avrei voluto rispondere. E adesso avrei desiderato raccontarti queste risposte e queste storie, adesso, durante queste incertezze, dentro i ritmi della tua bottega, dentro i tempi del pane, dentro le fasi dei panni da lavare e da asciugare, dentro le fioriture delle poche carezze che ci siamo dati, dentro le placide furie di questo amore così frugale, così arido e fecondo, dentro le tue preziose attenzioni a me, Joseph ben Jakob, e quanto preziose per me forse tu non lo sai, perché ti sei scaldato all’incendio dei miei silenzi.
Così sei cresciuto piano nel mio cuore, e lentamente ho capito che avevi l’audacia di Abramo che sacrifica l’unico figlio a un Dio sconosciuto di cui si fida ciecamente, la forza di Elia che sfida i sacerdoti degli idoli muti e ciechi, e che vince soltanto per l’aiuto di Dio, la familiarità di Mosè con l’Eterno ed a cui non ha bisogno di chiedere per se stesso, perché ha già tutto quello che gli serve ed in sovrabbondanza. Così ho visto il sole dello stupore crescere, con certezza e sicurezza, dentro i tuoi occhi e produrre una meraviglia serena e pacificata, tranquilla, come un canto mormorante lodi a Dio per quello che vedevi, non capivi, e semplicemente amavi. Così, Giuseppe sposo mio, ti sei messo ad insegnare l’amore all’Amore, ti sei trovato nel compito di dare lezioni di umiltà all’Umile, ti sei incaricato di insegnare la Legge a Chi è la Legge. Ed hai dato lezioni a Dio, che da te le ha prese e ne ha fatto tesoro. 
Perché sei stato ubbidiente al Signore, ed hai scelto la Sua volontà proprio quando non la capivi. Così Giuseppe, sposo della mia vita umana, adesso è il Signore che t’accoglie.”
Gli occhi dell’uomo erano rimasti chiusi mentre la donna parlava, e le sue mani erano strette una da quelle della donna e l’altra da quelle di un giovane uomo, entrambi con le lacrime agli occhi. L’uomo aprì il suo sguardo ed un’ombra di allegria gli fiorì nel volto: “Una cosa ho sempre chiesto al Signore, e quella ho trovato: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio. Questo ho già avuto con voi e non so perché, ma ne ringrazio l’Onnipotente, perché Santo è il Suo Nome.”
Poi, dormiva.





Con quelle tue mani 
penose di così fatica incessante che poi
le raccoglievi spezzate,

come facevi ad accarezzare lo stupore d’amore 
annegato negli occhi di quella vergine
vita affidata alle tue mani inette
a toccarla, se non da vecchio se non da lontano? 

Son larghe d'un  falegname le spalle
e tagliate da ritmi di pene lavori,
spostare accorciare segare piallare levigare inchiodare;
con quelle spalle dense di queste fatiche sudate
come facevi a ospitare lo stupore d’amore che tu,
spettatore di occhi di donna, leggevi
in quello sguardo di donna inciso d’eterno?

E così sei vissuto vicino
al completo della piena bellezza e adagio
hai accettato di non saper capire,
incomprensibilmente 
ti sei accorto dell’abisso di cui eri l’accanto
e nel viso (cresciuto a consueto) di quella donna 
che ti sorrideva carezzava le spalle disfatte
dai giorni rappresi di lavori ben fatti, 
irreparabilmente quel viso
hai compreso non esser consueto
che tuo non era e non era mai stato
e soltanto umano non era, soltanto,

e quel tuo figlio 
che sapevi non tuo, eppure fiorito
al tuo cuore di padre nel figlio del tuo seme che t’eri sperato,
questo inaccessibile figlio, voragine d’inaccettabile amore
- ma se ti giocava accanto?  se ti guardava? -
- però il suo sguardo era lontano, smisurato per me, lieve da me e da me troppo leggero –


quel figlio, 
Figlio del Padre invisibile
e soltanto suo Figlio
com’è che l’hai saputo? 


Quand’hai compreso chi è 
che ti ha fatto: vita di essere padre? 

Lenta la tua Pentecoste
è cresciuta nella fatica di lavorare amore
come il troppo che ami,
che fatichi ti vive ti sfugge, perché
non si raccoglie il mare
non si ferma il sole
non si tiene il cielo
non si guarda da umani negli occhi di Dio,
quegli occhi 
che assai lentamente hai compreso, soltanto:
soltanto come sa fare
così, un falegname operaio
docile 
umano 
normale.





Psichè te kai aiòn, il respiro e la vita: così è nell’Iliade, come testimonia Montanari nel dizionario di greco. Per un ignorante come me significa l’anima e l’eterno, dio e l’uomo, o, molto meglio, mi dicono di Te, mio Dio, che sei in ciascun essere umano quel livello di vita che è una coscienza  non estirpabile, che c’è irresistibile e necessaria.
Quella strana cosa (una cosa donna? sicuramente la cosa propria di Dio) che chiunque conosce ed è chiamata, per incertezza di parole, amore.
Perché forse occorre recuperare un senso originario, tra i molti, dell’amore vicino, capace di distinguere ma che non separa, che accetta, trasferisce, condivide, che lascia lontano perché è amico ed amante, persona e passione, condivisione e scelta, furore e pensiero meditante. Amor non basta e philos non è sufficiente ed entrambi sono appena indispensabili ad iniziare a sentire che c’è qualcosa o qualcuno di vicino e diverso, di accanto e lontano. Corpi, al plurale, e anima, al singolare. O viceversa. O altro ancora.
Perché c’è Dio, l’Amore Grande che è tutte le differenze e le diversità che è la vita. Quelle dissonanze che cerchi, in amicizia e passione. Come il silenzio che ci nutre e l’ascolto che ci scalda, come il sospetto di senso ed il sogno di sapere, come l’ansia di amare, la necessità di una carezza ed un sorriso; per dono, per regalo, per offerta, per spreco. Un Dio che perdona e ci farà decidere di poter imparare a saper perdonare, senza giudicare con sapienza, ma opponendosi con gioia all’indistinguibile ferocia dell’odio, il lavoro di morte su corpi di schiavi da cui è nato l’Occidente e l’Oriente, il dominio dell’uomo sull’umano contro l’umano, invece scegliendo la fedeltà d’amore di un Dio debole che si fa vittima di questo stesso odio.

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